Making Today An Artwork





Il Nuovo Michelangelo? 

Cosa significa oggi fare un'opera d'arte? Oltre alle domande tipiche del contemporaneo ("cosa significa?"- "lo potevo fare anche io?") spesso nel dibattito pubblico ci si chiede chi sia il nuovo Michelangelo. Alcuni dicono Steve Jobs, altri Hollywood, altri con più coerenza quelle che sono le star anni 80-90 del contemporaneo (Hirst, Cattelan, Koons, ecc). Fare un'opera d'arte significa creare un testimone di modi, atteggiamenti e visioni. Il valore dell'opera sta nella misura in cui tali modi, atteggiamenti e visioni hanno valore per la nostra vita. Il bello è che ne possiamo parlare, fortunatamente non ci sono dati troppo oggettivi; ma sicuramente è possibile mettere in relazione l'opera in sé, al contesto e alle intenzioni dell'artista (ossia tutta una serie di informazioni, come i materiali utilizzati, i titoli, e altre opere e progetti realizzati). 
Questo testimone esiste quando incontra un interrogatorio, ossia lo spettatore. Se un albero cade nella foresta e nessuno è presente, potremo dire che l'albero sia mai caduto? Le logiche dello spettacolo, in cui siamo perennemente immersi, da Facebook fino alla pratica del selfie, dicono che quell'albero non è mai caduto. L'opera d'arte esiste solo quando incontra lo spettatore. Perché creare questo testimone di modi-atteggiamenti-visioni? E qual è il Michelangelo della contemporaneità? Ma soprattutto, se io vi dico che Mario Coriandoli è il nuovo Michelangelo, ma Mario Coriandoli non se ne rende conto e neanche ci pensa all'arte e a Michelangelo, cosa succede in questo caso? L'artista deve essere consapevole di esserlo? Non credo che Steve Jobs si sia mai posto grandi problemi sull'essere o meno il Michelangelo del suo tempo. 
Prendiamo per esempio Maurizio Cattelan: il Papa colpito da un meteorite, Hitler bambino in ginocchio, o i bambini impiccati con gli occhi aperti, sono il corrispettivo contemporaneo della Cappella Sistina? O il Nuovo Michelangelo è Steve Jobs che ha dato a milioni di persone in mano uno strumento (l'iPhone e non solo) per interagire, informarsi e creare fotografie e video? Le esigenze del turismo e della pubblicità dell'istituzione pubblica, quanto di quella privata, implicano la necessità di creare e attirare una platea. Spesso una platea passiva. A mio parere il nuovo Michelangelo dovrebbe rompere questa fruizione passiva, potremo dire "turistica" delle cose, per realizzare una frase di Cy Twombly che richiamo spesso: 
(silenzio)
“La gente non vuole più fare il pubblico, né l'allievo,
vuole entrare nella cosa, ossia sente che c'è già dentro.”


Mentre Cattelan persegue la dinamica stanca del turista, che come in un fast-food, entra consuma ed esce, Steve Jobs fornisce a tutti la possibilità di cucinare, creare piatti e condividerli. Potremo dire una super forma di arte relazionale. Se ci pensate con il "selfie" ognuno diventa effettivamente autore, primo spettatore e contenuto, entra letteralmente nell'opera ("c'è già dentro"), diventa l'opera. Questo è quello che sta succedendo, milioni di persone fanno milioni di foto-inevitabilmente qualcuna di queste foto è bellissima, ma poi le foto rimangono in formato digitale e lentamente spariscono e vengono cancellate. Viviamo un pieno di contenuti che nasconde un grande vuoto. Come a dire, né Cattelan né Steve Jobs, sono i nuovi Michelangelo, ma ognuno di noi aspira più o meno consapevolmente a diventare il nuovo Michelangelo. Ossia lo sono anche Cattelan e Steve Jobs. Quindi forse la domanda è mal posta: dovrebbe essere: "come distinguere oggi un'opera d'arte di valore?". O qualcosa che abbia valore per la nostra vita. Questo è il punto. Se poi mettiamo in relazione questa riflessione all'andamento delle politiche nei paesi occidentali, ma non solo, ci accorgiamo che l'unico spazio politico praticabile rimasto sia la nostra dimensione locale, micro e privata. In questa dimensione dobbiamo distinguere e creare cose di valore, cambiare e rivoluzionare la nostra vita, mentre le politiche macro e nazionali perseguono unicamente politiche di galleggiamento. La fruizione tradizionale dell'arte, il format della mostra, come l'idea più diffusa di opera d'arte, partecipano ad una forma di turismo del tutto inefficace, che partecipa al fast-food dell'intrattenimento; appena l'artista segue queste logiche si ritrova subito con le gambe tagliate in partenza. Come a dire, sappiamo che chi oggi cerca di diventare consapevolmente il nuovo Michelangelo, non lo potrà mai diventare.
Potrei affittare un capannone nella periferia di Milano e creare qui dentro un'opera straordinaria: le prime cose che mi vengono in mente sono le grandi dimensioni; poi la capacità di riprodurre fedelmente alcune figure iperrealiste; poi i colori forti e attraenti; la possibilità di entrare e interagire con l'opera, semmai togliendosi le scarpe e rimanendo sospesi; in una zona offrire cibo buonissimo, mojito e spritz buonissimi. Una sorta di mega-scultura colorata e interattiva, a metà strada tra una grande giostra del luna park e un carro di carnevale. Poi potrei fare le foto a questa grande opera e postarle su Facebook, comunicandole a tutto il mondo. In fondo avrei creato una sorta di girone dantesco, una vera Cappella Sistina contemporanea. Ma siamo sicuri che questo mi porti ad essere il nuovo Michelangelo contemporaneo? O il museo, come il curatore, avrebbe il dovere di cercare, promuovere e difendere una forma diversa di arte come valore della contemporaneità? La Biennale di Venezia come la mostra cool "Slip on the Tongue" di Danh Vo a Palazzo Grassi, non sono molto diverse dalla mia mega-scultura interattiva; semplicemente biennale e danh vo forniscono mojito e spritz più intellettuali e sofisticati, che fanno effettivamente sentire lo spettatore come il collezionista, cool e sofisticato; per non parlare che così facendo, in un certo mercato, certe opere aumentano di prezzo. La mia mega-struttura sarebbe costosissima e probabilmente invenduta, senza le migliori pubbliche relazioni del sistema internazionale dell'arte. Un grave errore nel giudicare l'arte contemporanea sarebbe quello di farlo in senso assoluto, senza pensare che il valore di un'opera è relativo ad un determinato ambito e a determinate intenzioni; se ho una protesi cardiaca di ultima generazione, questa ha un grande valore nell'ambito medico, medio nel campo dell'arte (più alto se avessi le pubbliche relazioni di danh vo a sostenerla), nullo se abbandonata in mezzo al deserto. Quindi come può succedere che chiunque possa potenzialmente essere il nuovo Michelangelo? La critica d'arte dovrebbe limitare o finalizzare questo "potenzialmente". E' chiaro che in un sistema dell'arte nazionale e internazionale, l'assenza di una critica d'arte incidente ed efficace, fa sì che tutto sia posto sullo stesso piano e che siano chiamate le pubbliche relazioni a fare le differenze. E spesso la prima ricaduta di questo è il mercato, ma le pubbliche relazioni sono la scintilla per fare le differenze. Oggi più di ieri tutti possiamo produrre contenuti e opere d'arte più o meno consapevoli e più o meno provocatorie. Il punto sta nel riuscire a fare le differenze. Che differenza c'è tra la mia mega-opera nel capannone vicino a Milano, e la scatola da scarpe vuota presentata da Gabriel Orozco alla Biennale di Venezia di qualche anno fà? Potremo dire "nessuna differenza", entrambe partecipano ad un rituale stanco, turistico e "mordi e fuggi", Orozco propone uno spritz più intellettuale e sofisticato, io propongo uno spritz più popolare e divertente. Ma non è meno sofisticato proporre un luna park con la consapevolezza di proporre un luna park. 


Un'ecologia dell'arte 

Ma dopo questo bagno di sofisticatezza e intrattenimento, cosa accade? Ritorniamo nelle nostre case, ritorniamo nel nostro privato. Per poi aspettare di spendere nuovamente energie, risorse e tempo per andare a vedere la prossima mostra d'arte. Nel 2009 ho pensato di sviluppare una sorta di ecologia dell'arte. Solitamente un testo critico premeva sopra alcune immagini di documentazione. Solitamente guardiamo la documentazione o le immagini di una mostra a casa, nel nostro privato. E si tratta di un'esperienza del tutto parificabile a quella di vedere l'opera d'arte dal vivo. In questo modo però risparmiamo tempo (la vera risorsa scarsa a nostra disposizione) e denaro; ma soprattutto usciamo dalla dinamica turistica del fast-food dell'arte; lo spettatore non è mai costretto ad un fruizione passiva, ma è al centro dello spazio della mostra e si accorge che lui stesso può diventare autore attivo. Ma siamo tutti autori attivi, come dice Twombly e forse non resta che tentare le differenze fra i contenuti. La documentazione/opera costringe ad una fruizione immediata, mentre il testo critico spesso cerca di stimolare una sensibilità nel fare le differenze. La mostra e l'opera sono sempre dove si trova lo spettatore che non spreca alcuna risorsa, come l'autore non ha sprecato alcuna risorsa. Potremo parlare di un'ecologia dell'arte. 



Il primo intervento di questo blog nel 2009 fu una mostra presso la vecchia sede della Galleria Zero di Milano. Vediamo nella galleria due macchie grigie, alcuni ci vedono due opere cancellate, altri un sovraccarico formale come se avessimo portato contemporaneamente nella stanza tutte le opere passate per la Galleria Zero durante la sua storia. Effettivamente la (sovra)produzione indiscriminata di opere, alla lunga non ci lascia nulla, e servono tempi di decompressione per soffermaci e trattenere qualcosa. Dopo pochi giorni da questo intervento, dal sito della Galleria Zero sparirono tutte le opere, e rimasero solo i curriculum vitae degli artisti, ossia i precipitati delle pubbliche relazioni che servono per fare le differenze nella (sovra)produzione di opere d'arte. Il collezionista compra spesso pubbliche relazioni, compra i curriculum vitae. L'opera rimane un vezzo, una forma di "ikea evoluta" che può piacere e arredare anche simpaticamente una casa. Con questo intervento mi interessava rendere evidente come il centro dell'opera non fosse in quella stanza della galleria, ma altrove. 





Nel 2013 mi trovai casualmente a passare per l'Abbazia di Sénanque a Gordes. Poco prima della biglietteria, in quello che è uno dei siti turistici più frequentati della Francia, gli orari della biglietteria erano posti sopra una teca apparentemente vuota. Forse perché circondato da orde di turisti che soffocavano il senso di quel luogo, istintivamente spostai gli orari della biglietteria per ottenere una teca vuota. Finalmente un momento di pausa in quel bulirone di turisti e stucchi provenzali. Ma la teca non mi sembrava vuota, e così iniziai a fotografare ossessivamente la teca. Molti turisti rallentavano il passo, altri si stropicciavano gli occhi, alcuni arrivarono a fotografare insieme a me la teca. Dalla teca emerse, solo durante la fruizione delle foto a casa, un piccolo Tao, fatto probabilmente di polvere; e poi ancora una sorta di paesaggio zen caratterizzato da diversi elementi (le striature sul fondo, alcuni frammenti molto piccoli, un piccolo buco e un legnetto). Oggi quella teca mi ricorda il mio intervento presso la Galleria Zero nel 2009. Se il turismo di massa soffocava il senso dell'Abbazia, istintivamente sono stato indotto a sottolineare con forza quella teca vuota, fotografandola ossessivamente. Questo faceva rallentare i turisti e creava quel momento di decompressione che risulta fondamentale, per poterci soffermare e trattenere qualcosa nel bombardamento di opere e contenuti a cui siamo sottoposti. L'intervento a Gordes mi sembra un attentato positivo, atto a ricostruire il senso di un luogo piuttosto che a distruggere un sito turistico di grande affluenza. 

I due interventi sono una goccia nel mare, soprattutto senza le pubbliche relazioni di Danh Vo, ma potrebbero diventare più forti se più persone attivassero una certa "sensibilità critica" rispetto a quello che vedono. Nella vita quanto nel museo. Cosa potrebbe succedere all'interno del Louvre, degli Uffizi, della Biennale o in una qualsiasi galleria privata? L'intervento della teca lavora su più livelli: una sorta di candid camera, la documentazione su internet, e l'esposizione fruibile della teca stessa. Il museo, come il curatore, dovrebbero motivare, selezionare e difendere. Gli artisti allo sbaraglio sono già in atto, e oggi il museo non è una palestra e un laboratorio per allenare alla visione delle cose, ma un fortino da cui difendersi.