RE-PRINT:Dialogo con Angela Vettese e Luca Rossi (gennaio 2011)




Luca Rossi: Io ho la sensazione che all'estero ci sia un clima più sereno e aperto. Nel 2009 le mi diceva giustamente:" che interesse avrebbe un critico italiano nel non evidenziare adeguatamente un buon artista?" A mio parere c'è un problema di" interesse" per almeno due ragioni. Ho la sensazione che critico-curatore sia più interessato ad essere una sorta di artista-autore, quindi forse entra in una competizione benevola con gli artisti. E' una tendenza consolidata, ultimamente favorita da un appiattimento degli artisti, che il curatore-critico tenda a diventare una sorta di regista.
In secondo luogo mentre l'italia sta vivendo una fase storica pessima, la posta in gioco nel sistema dell'arte italiano è bassissima. A cosa deve aspirare un giovane critico-curatore italiano? A diventare un direttore di museo perennemente in lotta con i tagli alla cultura? Il vero interesse è per la scena internazionale. Questo,in Italia, significa fare i conti con complessi di inferiorità atavici: e quindi si tende a vestire e supportare degli standard linguistici mainstream ( o un certo manierismo di minore o maggire qualità). Standard che non sono interessanti agli occhi dell'estero, perchè sono una copia degli originali esteri. La reiterazione di queste dinamiche disincentivano e mortificano, dentro i confini nazionali,  un confronto critico aperto e la definizione di "nuove" vie. 
   

Angela Vettese: Del resto non mi sembra che si possa affermare che i critici d'arte italiani non siano di buon livello. A parte personaggi della storia come Germano Celant e Achille Bonito Oliva, tre tra i più potenti curatori/critici di oggi vengono appunto dal nostro paese: Francesco Bonami (Biennale del Whitney 2009), Massimiliano Gioni (Biennale di Kwangiu 2010) e Carolyn Christov-Bakargiev (Documenta 2012). Se hanno raccolto tanta stima all'estero così come in Italia, considerando la competizione che vige sul piano mondiale, è improbabile che siano  incapaci di interpretare o valorizzare un'opera o l'operato complessivo di un artista. E' vero invece che l'Italia come paese vive uno dei suoi momenti peggiori, lontani dall'entusiasmo di ricostruzione che generò il neorealismo, lontano dallo stupore per una nuova ricchezza che generò l'arte povera, lontano dall'edonismo, canto del cigno delle potenze occidentali, che generarono il made in Italy anni ottanta e la sua controparte artistica nella Transavanguardia, oggi rimossa ma che domani dovremo tutti rileggere.
I critici italiani che ha ricordato sono di qualità. E penso che abbiano supportato adeguatamente e sinceramente gli artisti italiani in cui credono. Vado a memoria per gli artisti che hanno lavorato con questi tre: Beecroft, Cattelan, Vezzoli, Gabellone, Perrone, Pivi, Assael, Trevisani, Tuttofuoco, Favelli. Apparte Cattelan che ha vestito un linguaggio nuovo e necessario negli anni 90, molti (tutti ?) questi artisti ricalcano linguaggi sovraprodotti e reiterati. In questi artisti vediamo intuizioni interessanti: il clima di beecroft, il vintage sapiente di favelli, le sculture mentali di gabellone, un certo sapore di perrone, il pop vintage di vezzoli, il rideclinare l'arte povera di assael. Ma queste intuzioni non richiedono di più che essere semplicemente evidenziate. Non siamo difronte a scarti linguistici. Menna sostiene che:  “(...) l’opera d’arte è quindi, soprattutto fondazione di un nuovo universo del significato, non un’analisi del già noto: per cui essa si colloca all’incontro tra un momento semiotico, che dà il quadro esatto della situazione del codice nell’atto in cui l’opera viene realizzata, ed un momento ermeneutico, di scoperta di nuovi ambiti di realtà’ . Questa scoperta del nuovo avviene attraverso l’alternarsi di differenze e discontinuità, tra una linea analitica e una dialettica, che gioca molto sulla contraddizione di termini complementari ma opposti. Quindi non ci deve essere un'ossessione al "nuovo"; e quindi credo che  la visibilità dell'arte italiana sia stata corretta rispetto i linguaggi sviluppati. Ciò nonostante permane un assenza di artisti italiani dalla scena internazionale che conta (cit. Pier Luigi Sacco, Flash Art); ovviamente con esclusione di quelle rassegne casalinghe dove il curatore di turno deve necessariamente assicurare delle quote italiane.  

Da molti anni chi rimane in Italia non ha stimoli sufficienti, né tra gli artisti né tra i critici. La storia e le sue ragioni sono più forti di noi singoli. Se ho un rimpianto, peraltro irrisolvibile, è di essermi trovata a operare in un tempo in cui l'Italia è stata un paese progressivamente sempre più debole nelle sue spinte creative. Chi ha saputo esprimersi al meglio, persino tra i galleristi, è andato a cercare altrove i propri stimoli. La mostra che ho dedicato alle residenze d'artista, che a lei è sembrata senza idee e priva di fondamento critico, ragionava invece proprio sulla necessità di spostarsi e andare a vedere com'è il mondo. E certo non è un discorso valido solamente per l'Italia e i suoi artisti. Per tutto questo, a me sembra tanto importante l'aspetto divulgativo e quello formativo, ambiti a cui ho prestato le mie attenzioni più corpose: c'è bisogno di fondamenta.
A mio parere in italia c'è un problema formativo per gli addetti ai lavori ma anche per il pubblico più in generale. E' come uno stato senza opinione pubblica: la presenza di un opinione pubblica (un pubblico con gli strumenti per leggere il contemporaneo) avrebbe ricadute sugli addetti ai lavori e poi sul linguaggio prodotto; per non parlare di come questa cosa possa arginare i famosi tagli alla cultura.  
La mostra che lei e Milovan Farronato avete dedicato alle residenze, era una ricognizione corretta. Come dire il contrario? Avete fotografato la situazione delle residenze. A mio parere non è corretto guardare alla residenze. Come in un recente comunicato del Docva non ho apprezzato che il "successo" degli artisti venisse misurato in termini di residenze all'estero o di qualche apparizione in gallerie private di medio livello.  Questi dati rappresentano percorsi di "professionalizzaione della rapresentazione" che faticano competere con il Presente. Vi competono solo perchè hanno un sistema che protegge e glorifica questi percorsi. A mio parere bisogna recuperare una sincera capacità critica e fare delle mostre come conseguenza di una certa visone critica; semmai integrando residenze ed extra. Ma quì ritorna il problema dell'interesse reale che hanno le persone. 
 Ovviamente sto generalizzando: anche tra gli artisti in residenza ci possono essere cose interessanti.
 A mio parere l'artista oggi deve saper gestire una distanza fisica e mentale da certi percorsi di profesionalizzazione. Questo senza mettere da parte una seria professionalità.
Nel nostro dialogo 2009, avevamo evidenziato due possibili alternative: l'artista come ibrido, come incontro di diverse culture e diverse esperienze, e l'artista che esaspera uno stato, una condizione. Ad oggi mi sembra che viviamo sempre di più in una situazione dove ogni ambito è pervaso e saturo di una creatività diffusa  e sovraprodotta. Siamo pieni di creativi e potenziali artisti. La tragicamente famosa Sabrina di Avetrana, pur vivendo in una periferia estrema, conosce perfettamente i meccanismi "artistici" della televisione, voleva partecipare al Grande Fratello e la prima cosa che ha fatto dopo il fattaccio è organizzarsi un proprio ufficio stampa. Con l'introduzione della macchina fotografica digitale chiunque può sperimentare liberamente la fotografia e diventare "artista".

Non condivido la definizione di artista che soggiace a questa sua considerazione. A mio avviso artista non è chi attira l'attenzione, ma chi sa rendere forma un pensiero e sa farlo in un corpus di opere coerente. Se l'arte visiva fosse “semplice” comunicazione, i politici sarebbero gli artisti migliori, perchè costruire il consenso significa soprattutto sapere comunicare.

Non mi fraintenda. Non voglio nemmeno sposare la retorica per cui "la realtà supera la fantasia". Penso che colui che si pone il problema di "fare l'artista" debba essere consapevole di un certa sovrapproduzione e saturazione creativa. Questo sia nella realtà che in campo prettamente artistico; tanto che spesso i confini tra gli ambiti e le discipline (come anche l'autorialità) tendono a sfumare. A volte, soprattutto nelle ultime generazioni, non vedo questa consapevolezza. Il lavoro artistico (come lo definirà più avanti), la rappresentazione artistica è messa in crisi da questa sovrapproduzione creativa. I progetti di Whitehouse vorrebbero reagire a questo stato di cose; e non si tratta di critica istituzionale, ma di questioni ("tematiche") differenti e indipendenti. 


Per fare un'altro esempio l'arredamento da interni, anche il più dozzinale, ammicca all'arte contemporanea.
Forse ammicca all'estetica corrente, che nasce da sistemi di pensiero come il minimalismo o il costruttivismo, da sempre in connessione con l'arte e il suo linguaggio,  ma soprattutto dalla pubblicità.  La quale guarda con sempre maggiore attenzione all'arte contemporanea. Il collegamento di cui lei parla è reale, ma nasce dall'attraversamento dell'arte in territori vicini. Altrimenti perchè permarrebbero nel gusto comune così tante idiosincrasie e tanto sospetti verso  l'arte visiva sperimentale? Certo, una campagna Prada può essere ispirata da Vanessa Beecroft. Ma chi compera un abito Prada sovente dice di trovare “incomprensibili” le performance che hanno ispirato le campagne pubblicitarie di cui, pure, è vittima o comunque fruitore.
Anche il gommista sotto casa ha idee ben precise rispetto alla propria comunicazione. Potrei andare avanti. In questa situazione di saturazione creativa, che ruolo può avere l'artista per come comunemente inteso?
“Comunemente inteso” è un'espressione vaga. Un artista inteso nel senso in cui lo identifichiamo noi due, cioè colui che appartiene o vuole appartenere alla comunità che fa capo alla tradizione delle cosiddette “Belle Arti” e che è passato attraverso la lezione delle Avanguardie Storiche, delle neoavanguardie e del ripensamento postmoderno e neomoderno,  è soprattutto un creatore di prototipi: colui che inventa un modo di visualizzare il pensiero del suo tempo, colui che è in grado di penetrare nel linguaggio dei media esercitando un'attrazione spesso inconsapevole ma a volte anche voluta nel mondo dei media, colui che genera tipologie di immagini che poi troveremo nel design, nei videoclip, nella regia cinematografica e in molte altre espressioni soprattutto visive.


I media, poi, si incaricano di adattarne il linguaggio potenzialmente sovversivo al gusto caro alla “piccola borghesia planetaria”, per usare un'espressione di Giorgio Agamben, o al “Bloom” inteso come uomo comune, per usare un'espressione del gruppo Tiqqun. E' precisamente questo passaggio a depotenziare il lavoro artistico, nel breve tempo. Spero e credo che nel lungo tempo tracce della sovversione implicita nel lavoro degli artisti migliori sappiamo e possano seminare inquietudine e quindi nuovo pensiero.

Sono d'accordo con queste sue riflessioni.  Bisognerà stare attenti a questo "depotenziamento" del lavoro artistico, evitando di arroccarsi sopra delle torri d'avorio. Un ruolo fondamentale lo possono avere i critici/curatori. Il mio augurio è che ci siano persone che riscosprino questi interessi, e la soddisfazione che possa dare interpretare con sincerità e passione il ruolo critico o il curatore. Intendo reale capacita' di approfondimento e divulgazione; capacita' critica. A me viene in mente la vecchia storia dell’albero che cade in una foresta, senza che nessuno registri qualcosa... e che quindi, in buona sostanza, forse non è caduto affatto. Giulio Andreotti (un politico) sostiene che :" Non basta avere ragione, bisogna anche avere qualcuno che te la dia". Ecco, l'arte contemporanea dovrebbe stare attenta a certe degenerazioni.