LR -Cosa significa oggi "valore" dell'opera d'arte? Il
valore economico è relativo ad un sistema di mercato, e il valore
"artistico"?
CP- provo a risponderti con termini squisitamente marxiani.
l'arte ha sia un valore d'uso che un valore di scambio. quest'ultimo
non è, però, il valore monetario dell'oggetto d'arte scambiato con una
certa quantità di denaro, ma è la capacità che una certa opera possiede
di scambiare significato cioè di promuovere un processo di produzione di
senso che va non soltanto dall'opera all'osservatore, ma anche da
quest'ultimo all'artista (il quale quindi dovrà in partenza accettare
che il significato della sua opera è sempre a-venire). l'arte, come ho
già detto in altre occasioni, è di chi la capisce e non di chi ha i
soldi per comperarla; di chi è in grado di scambiare significato con
essa, e quindi di continuare a darle vita, e non di chi scambia il
proprio denaro con un oggetto, che poi si possa vendere di nuovo, ad un
prezzo più alto. è vero che a volte un elevato valore di mercato di
un'opera corrisponde ad una elevata qualità (in termini di produzione di
senso) della stessa, ma sappiamo tutti molto bene - nonostante gli
sforzi dei media e dei circuiti commerciali dell'arte - che non sempre è
così. l'opera "ingabbiata" in un alto valore di mercato, inoltre,
rischia di entrare in un circuito mediatico in cui il suo significato
viene offuscato da altri elementi: lo staus symbol, la lungimiranza (o
la follia) dell'investimento, i giochi di potere sottostanti ecc. e così
tutta l'attenzione si sposta dall'arte al pettegolezzo.
per quanto riguarda invece il secondo "valore", direi che l'arte è
qualcosa che si può usare nel senso che anche l'opera più "bella",
ovvero dotata di eccelsa sintesi formale e ottimo impatto sui nostri
sensi (vista, ma non solo) può essere considerata un mezzo e non un
fine, uno strumento per la creazione di un territorio di nuove
possibilità di azione e di pensiero. L'arte insomma ha un grande valore
d'uso: può essere usata per produrre libertà.
VV Mi piace molto questa concezione dell’arte come
produttrice di libertà. Per rispondere alla domanda di Luca introduco
nella conversazione un altro tipo di valore, che considero direttamente
proporzionale al valore “artistico” e che nomino valore “dell’esperire”.
Sono convinta che il valore di un’opera d’arte sia strettamente
collegato alla sua capacità di generare un’esperienza, non solo visiva.
Un’esperienza di identità , di messa di discussione di identità in chi
la produce, in chi la fruisce e viceversa.
Voglio citare le opere di due artisti che amo in questo periodo,
“Diálogo: Óculos” (1968) della brasiliana Lygia Clark, e “Intellettuale.
Il Vangelo secondo Matteo di/su Pier Paolo Pasolini”(1975) di Fabio
Mauri. Due artisti e due opere molto diverse fra loro, che per me,
costituiscono un illuminante esempio di opere d’arte “di valore” capaci
di generare un’esperienza di identità , di dislocamento nella percezione
dell’identità e quindi di produzione di libertà.
LR- Va bene, l'opera innesca uno scambio di significato e si "usa" per
produrre libertà . Mi viene da dire che potremo eliminare i nomi degli
artisti e concentrarci sulla diffusione di una certa alfabetizzazione
linguistica. In questo senso ci sono tantissime opere interessanti che
nascono dalla ricombinazione di diversi ingredienti. Mi sembra che una
tendenza di questi anni sia la formazione di un grande esercito di
"giovani artisti". Una grande sensibilità che è in grado di filtrare ed
elaborare il meglio del 1900. Molte opere nascono da un linguaggio che
rischia di diventare archetipo spuntato e rassicurante. In questo caso
la reiterazione del medesimo linguaggio mette tutti al riparo dalla
"mettersi in discussione". L'opera non può essere strumento per la
"libertà" perchè agisce all'interno delle logiche prevedibili del
"carcere". Ditemi se sbaglio.
In questo senso mi sembra molto interessante il progetto di Cesare di
approfondire e ricercare l'arte italiana in "esilio", cioè fuori dai
canali tradizionali. I risultati potrebbero anche essere deludenti, ma
anche inaspettati.
CP le principali strutture carcerarie per un artista (di conseguenza per la sua opera) sono tre: le istituzioni, il mercato e i media.
la prima è collegata alla paura di non essere riconosciuto, di non
essere "nessuno" e questo porta molti ad accettare le regole delle
istituzioni che, in apparenza ma anche in effetti, garantiscono una
qualche forma di riconoscibilità. a questo carcere non si sfugge, perché
in un certo senso la presenza "istituzionale" è necessaria, certamente
come una sponda con cui confrontarsi dialetticamente ma, ancora prima,
come contesto all'interno del quale si sviluppa condivisione di
linguaggi.
LR Questo lo trovo giustissimo. Credo che in una primo
momento, soprattutto nella fase attuale, sia necessario staccarsi da un
certo "professionismo dell'arte". Per come è organizzata la nostra
società questo non può avvenire perchè il giovane studente viene subito
spinto alla professionalizzazione forzata. In questo modo diventa
fondamentale il boom anni 60, e quindi la Nonni Genitori Foundation che
permette a molti giovani di mantenere con il sistema un'indipendenza
coivolta. Non ci sono artisti figli di operai? O forse quando ce ne
sono, sono migliori?
VV- Di rado ci sono artisti figli di operai. E’ un dato di
fatto da cui non si può prescindere. E’ molto difficile per un/una
artista giovane riuscire a vivere del proprio lavoro, la prassi
dominante è quella dell’invito alla produzione non retribuita. A questo
dato si aggiunge l’ esigenza di riconoscibilità da parte delle
istituzioni che è aspirazione necessaria e allo stesso tempo fattore di
“rischio” della capacità di sperimentare, della capacità di infrangere
anche dall’interno le regole imposte dal “carcere” e soprattutto
rischio dell’ intorpidimento del percorso di ricerca. Essere consapevoli
dell’esistenza di queste costrizioni è condizione essenziale per
evadere questi rischi, non sono tuttavia sicura che sia sufficiente a
oltrepassarli.
Altra cosa interessante è come molti operatori, iscritti a
questa fondazione, cerchino (in qualche modo) di cancellare le loro
"radici" che paradossalmente li stanno "mantenendo".
LR: In questo senso su Whitehouse sto cercando di
commettere un azzardo. E quindi una tensione nel voler sintetizzare, in
un unico punto, tutti i livelli del sistema. In questo modo si crea una
piattaforma schizofrenica e autoreferenziale che può bypassare il
sistema. Su Luca Rossi si sovrappongono tutti i ruoli del sistema
(spettatore,critico,artista ecc). Questa idea non implica la
distruzione o esclusione del sistema.Cosa pensate di questa tensione?
CP- in effetti le istituzioni ricalcano il funzionamento
del linguaggio - norme rigide, difficili, stringenti ed escludenti, ma
anche campo di possibilità di relazioni. se però la paura
dell'esclusione prevale, allora il linguaggio verrà usato in modo
limitato e convenzionale e l'attitudine sarà quella di
un'accondiscendenza che garantisce forse riconoscibilità immediata ma
anche una condivisione soltanto superficiale.
la seconda strettoia è quella delle leggi di mercato, la presunta
trascendente oggettività del valore economico. se si accetta supinamente
l'equivalenza valore culturale - valore monetario, allora ci si
ingabbia nel più prevedibile e stupido dei carceri.
la terza è quella dei media, la pericolosissima tendenza a convincersi
che esiste, che è reale, soltanto ciò che passa in televisione o sui
giornali.
credo che sia controproducente però prendere queste gabbie "di petto",
in modo antagonista e con attitudini esclusivamente distruttive: a me
interessano di più le strategie sottili, che usano in modo imprevedibile
e paradossale anche gli elementi problematici o negativi, all'interno
di un altro gioco, che non è più il loro. di nuovo è la stessa cosa
dell'uso poetico (o, se preferisci, sperimentale) versus quello
convenzionale del linguaggio.
LR- Capisco quello che dici e condivido. Mi sembra molto
stuzzicante organizzare un altro gioco che non è più il loro. A volte
però una strategia invasiva e oltraggiosa può essere una strada sottile.
Perchè si commette l'azzardo di abbandonarsi in un mare pericoloso. Si
prende tutto sul serio, si gioca con tutto. Si prende consapevolezza
delle sbavature e di tutte le problematiche annesse. Mi viene in mente
un'opera, una stanza di john bock. Usare tutto, immergersi, sporcarsi
inevitabilmente, pensare, agire.
Credete sia possibile dare un valore oggettivo alle "opere"? Rispetto alla storia e al presente.
CP- Non credo nell'assolutezza e nell'oggettività, ma mi
rendo conto, mentre dico questa frase - indubbiamente molto
"generalizzante" - di cadere io stesso in una sorta di antinomia.
l'arte in tanto produce libertà in quanto mette in discussione criteri e
presunzioni di assolutezza e di oggettività di giudizio. secondo julia
mastrogiacomo l'artista "ha un potere che è dato dal riconoscimento di
essere portatore di un certo significato, che (...) si verifica di volta
in volta (idea per idea, opera per opera, mostra per mostra) e che può
essere confermato oppure no. Anche se ci sono fenomeni che si oppongono a
ciò (meccanismi di stabilizzazione, come il valore di mercato)
l'artista-leader rimette costantemente in discussione le gerarchie",
nonché i giudizi di valore assoluti ed oggettivi.
LR- Ecco, credo che questa necessità di mettersi (e mettere) in discussione sia fondamentale.
Io credo che sia possibile emettere un giudizio oggettivo su alcune
opere d'arte, mettendole in relazione alla data di nascita
dell'artista(tenedno presente la storia). Penso che si possa (quasi)
sempre distinguere tra arte "in tensione" e una sorta di
"artigianato" dell'arte contemporanea (questo termine lo uso con grande
rispetto e senza offesa). Va bene Martin Creed, però 20 giovani che
girano attorno a questo tipo di lavoro diventano parificabili ad una
sorta di "artigianato". Piuttosto troverei più interessante un giovane
di 20 anni che decide di fare solo tagli di Lucio Fontana. In modo
continuo e rigoroso. Questo almeno creerebbe problemi nella riproduzione
dei lavori, nel pubblico ecc ecc. Mi sembra che mettendo in relazione
un 'opera e la biografia dell'artista, l'oggettività dell'opera possa
tendere ostinatamente al 100%. Forse sono troppo severo. Ma mi sembra
possibile, all'interno delle due categorie non perfettamente definite
fra loro) di arte "in tensione" e artigianato .
Ciò nonostante credo che sia legittimo e interessante la definizione e
la diffusione di un gran numero di giovani che sanno comunicare e
decifrare il contemporaneo (non solo le arti visive). Quindi anche se si
tratta di artigianato (concettualmente e formalmente ben confezionato)
penso che il fenomeno sia positivo. Quasi parificabile alla nascita di
un nuovo "movimento artistico", privo di manifesti programmatici,
giovane e trasversale ad ogni paese.
CP- sono d'accordo, anche a me sembra che l'interesse per
l'arte contemporanea sia enormemente cresciuto, specie fra giovani e
studenti, negli ultimi dieci anni.
come sempre accade, l'ampliamento di interesse si porta appresso
fenomeni contraddittori - comunque nello specifico mi pare di vedere più
fenomeni positivi che negativi.
mi piace il tuo concetto di arte "in tensione": mi fa venire in mente il
concetto trotzkyano di "rivoluzione permanente", ma anche i profetici
studi antropologici di gregory bateson sulla cultura balinese, la
scoperta di comportamenti comunitari (nella musica, nell'educazione,
nelle dispute, nel sesso) orientati non da uno schema crescita di
tensione-acme-risoluzione (che caratterizza la cultura occidentale e
capitalista), ma da una tendenza a una stabilizzazione della tensione,
ad una valorizzazione della tensione per se stessa.
LR Sì, credo che i giovani che si avvicinino all'arte
contemporanea (non solo arti visive, ma un'interesse più ampio per la
contemporaneità) debbano mettere da parte le "mode" e le proprie
ossessioni personali. Questo mettere da parte implicherebbe uno spazio
di stasi e di riflessione dove sia possibile osare e sbagliare. E invece
le strettoie di cui hai parlato prima (istituzioni, mercato e media)
mettono fretta e impediscono una fase di riflessione fondamentale.
VV- Osare e sbagliare: sono cruciali queste parole che usi. Un/una
giovane artista deve farsi carico della dose di rischio e del coraggio
necessari a produrre un’opera che non segua le regole del “carcere”, che
osi essere “fuori” dal sistema economico, dei media, quindi dell’arte.
Osare per fare ricerca, sperimentare territori non conosciuti,
esponendosi anche alla possibilità dell’errore.
LR- Sperimentare e fare ricerca non significa eliminare
istituzioni,mercato e media. Anzi questi potrebbero diventare limiti e
antitesi fondamentali.
VV- Certo, infatti prima abbiamo parlato di “condizione necessaria” per il lavoro di un/una giovane artista.
VV-Non so rispondere propriamente alla tua domanda
sull’esistenza o meno di un valore oggettivo di un’opera d’arte. Una
delle definizioni di oggettivo è “imparziale, che si attiene ai fatti
senza l’intervento del soggetto” . Di qui la mia difficoltà nel
definire un valore oggettivo dell’opera. L’intervento del soggetto è
inevitabile e il valore forse si definisce proprio rispetto al soggetto
che tuttavia varia a seconda del contesto spaziale e temporale in cui si
colloca. Credo bisognerebbe definire rispetto a chi o a cosa si
definisce oggettivo il valore di un’opera. Il mercato, la storia
dell’arte, il fruitore?
Mi piacerebbe invitare a partecipare a questa conversazione qualcuno che
si dichiari portatore del valore del mercato, che sia interno al
sistema e ne sia convinto sostenitore. ..
LR- A volte queste questioni mi sembrano una jeep che
scende giù da una scarpata molto ripida...Una sorta di relativismo
estremo dove tutto può succedere. Questo può avere risvolti positivi ma
anche molto negativi. Il relativismo (che ho chiamato smart relativism
nelle opere di alcuni giovani artisti) può diventare il primo ostacolo
al concetto di libertà.Tocco tutto ma non faccio niente. Molte opere
sono pianificabili a tavolino. Vado in australia a filmare una nuvola
che si forma una volta all'anno. Lavoro perfetto, impeccabile. Non mi
riesco a rassegnare a lavori "perfetti e impeccabili". Sto parlando di
giovani artisti. Vedo troppe cose discendere dalla medesima sensibilità
colta-giovanilistica o da ingredienti del 1900. Tutto troppo facile. Per
essere colti basta una ricerca su Google. Bisognerebbe tentare una
distaccamento dal 1900. Forse c'è un cordone ombelicale che anche i
giovani più cool non riescono a tagliare. Viviamo uno stato di "attesa
precaria" in cui i giovani, per sopravvivere, assumo atteggiamenti
reazionari.
Non ho potuto assistere alla lezione di economica che avete organizzato
il 13 novembre 2009 presso Trastevere 259 a Roma. Il comunicato sembrava
tremendamente interessante. Cosa è emerso da questa lezione speciale?
(ognuno di voi può riportare il suo punto di vista)
CP- lezione viva di economia - ci tengo a ricordare qui che
è stato un evento curato da michele graglia, valerio del baglivo e
daria carmi, e introdotto e guidato da paolo bergmann, e a cui hanno
partecipato numerosi artisti - per me è stato un esperimento molto
interessante soprattutto perché ha innescato dei meccanismi basati sulle
modalità del dono, sebbene fatto in maniera non convenzionale e non
stucchevolmente "altruista". diciamo che si è trattato di "giochi di
dono", un modo per dare un senso di scambio e di uso anche al dono di
un'opera.
VV- Lezione Viva di Economia è stato il quinto
appuntamento di una serie di incontri che a cadenza irregolare
organizziamo nello studio di Cesare. Per me è stato particolarmente
stimolante proprio per il suo carattere performativo. I “giochi di
dono” sono stati messi in atto nel corso della serata, il pubblico ha
potuto circolare fra le varie postazioni d’artista esperire e
partecipare al baratto. Provo a citare alcuni tra gli interventi:
Michele Graglia ha scambiato segreti personali e “ a bassa definizione”
con chi lo ha battuto a tris, Iacopo Seri ha offerto al pubblico la
possibilità di scrivere poesie, i Liquid Cat hanno distribuito uno
strano barattolo simil anni ’50 dal contenuto misterioso, Andrea Caretto
e Raffaella Spagna hanno donato un kit biologico ed esperenziale a chi
accettato di testare il kit, Paola Falasco ha chiesto ad ogni artista di
donare tramite prelievo qualche cc del proprio sangue (e per
l’occasione Cesare ha riattivato le sue abilità di dottore in
medicina!).
LR- Mi viene in mente il Natale e l'attesa dei doni. Il
problema per il Natale è cosa regalare. Sicuramente interessante il
concetto di dono, ma non pensate che stiamo vivendo un assenza di
contenuti? Un vuoto? Che spesso ci spinge a rifugiarci nel 1900 e in
citazioni colte? Dalla vostra lezione è emerso il problema del
contenuto? Del cosa donare? Del cosa oggi, nel 2009, può innescare lo
scambio di significato e diventare strumento di libertà? Se potete
riuscite a fare qualche esempio?
CP - - lascerei questa risposta a valentina, però vorrei
soltanto dire che a me interessano molto i contenuti, ma prima di tutto
mi interessa l'attitudine con la quale si manifestano.
VV- Trovo interessante Luca questa tua domanda sul
contenuto e sul senso del citare e proverò a rispondere con ordine alle
tue domande.
Innanzitutto non credo stiamo vivendo un’assenza di contenuti. Penso che
siano molte e urgenti le questioni che la contemporaneità ci pone e che
l’arte “di valore” riesca a innescare delle esperienze critiche e
significative in relazione a queste urgenze. Intravedo piuttosto il
problema lì quando e dove si pratica una spettacolarizzazione di
contenuti “poveri”.
LR- Capisco la spettacolarizzazione di conteuti poveri. Ma
non vivi un disincanto sulla contemporaneità? Io vedo molte questioni
che procedono su binari molto definiti e invariabili nel tempo. L'arte
rischia di rimanere un passeggero che si dimena vicino al binario, e
vede questi treni sfrecciare a pochi passi. Viviamo un pluralismo di
contenuti che è paralizzante. Un pluralismo che ci anestetizza. Molti
contenuti non significa "contenuto". Pluralismo può significare anche
distrazione.
VV- Non amo coltivare il “disincanto”, né lamentarmi del
momento storico in cui ci troviamo, che non è di certo esaltante. Basti
pensare alla recente cronaca politica italiana. Preferisco piuttosto
attivarmi per contrastare il disincato attraverso gli strumenti che
conosco. La pratica artistica è il mio modo per essere attiva e non
perdermi nelle recriminazioni.
VV- Chiedi anche se la citazione sia da intendere come
rifugio in assenza di contenuti nuovi, questo di certo è un rischio di
cui è necessario essere consapevoli. Tuttavia sono anche convinta
assertrice del senso e del valore del citare oggi e per questo ti
rispondo affidandomi ad una citazione (!):
<<letting the voices of others echo through my text
is therefore a way of actualizing the noncentrality of the "i" to the
project of thinking, while attaching it/her to a collective project
*>> . (* Rosi Braidotti, Soggetto Nomade, Donizelli, 1995, trad.
it. <<far parlare voci altre nei miei testi e quindi un modo per
mettere in atto la non centralità del l ‘ “io” rispetto al progetto di
pensiero, e riconnetterlo invece ad un progetto collettivo>> )
Penso che queste parole della filosofa Rosi Braidotti
sintetizzino con efficacia il senso politico del citare e la volontà
di “detroneggiare l’io filosofeggiante” che troppo spesso ancora oggi
imperversa. Questa citazione inoltre è all’origine del lavoro che ho
realizzato per la Lezione viva di Economia, in cui ho scambiato e
commissionato scambi di citazioni.
LR-Lo scambio di citazioni credo esemplifichi bene questa fase e sia comunque un'idea fertile.
Quella della citazione è una strada possibile e scivolosa. Forse mi
sembra più utile, in questo momento, abbandonarsi all'io
filosofeggiante. Osare (semmai parlare anche da soli); consapevoli dei
propri limiti e dei limiti altrui. Poi la citazione può sembre tornare
utile. Fanno un po' paura quei comunicati stampa o quelle opere
totalmente basate su citazioni. Ma che poi potrebbero farne anche a
meno. E tutto può essere giustificabile. Tutto questo può anche andare,
ma ci vuole consapevolezza. Al contrario si rischia di ritrovarsi
impegnati in una burocrazia della creatività. E allora tanto vale
impegnarsi in contesti meno pretenziosi. Se oggi prendiamo un magazzino
Ikea e il motore di ricerca di Google possiamo imbastire qualsisa tipo
di mostra. Raffinata, Politica, Colta, Elegante, Stravagante,
Commerciale e così via. Ecco bisognerebbe uscire da questo Google-Ikea.
Questo nel momento in cui non c'è consapevolezza. Perchè un progetto
Google -Ikea potrebbe anche essere interessante.
VV- Mi incuriosisce questa tua battaglia contro il citazionismo.
Se è di questo che stai parlando, allora la condivido. Non amo e trovo
scivoloso il citare per giustificare e coprire un vuoto di contenuti o
per pavoneggiare un presunto essere colti. Ma credo che tu abbia
frainteso il senso della citazione della Braidotti e del lavoro cui ho
fatto riferimento. Che piuttosto parla del senso e del valore politico
del citare.
LR- non ho frainteso, la tua posizione è chiara.
VV-E con questo intendo riferirmi a quel livello di
consapevolezza che ti porta a sapere che quando sviluppi un concetto,
quando crei un lavoro non lo fai in un presuntuoso vuoto cosmico, ti
collochi in un determinato momento storico e ti ricolleghi
inevitabilmente ad una corrente di pensiero, ad altre persone,
pensatori, artisti che prima di te hanno usato quel concetto, creato un
lavoro analogo, e che magari nello stesso momento lo sta facendo anche
qualcun altro. E nell’ipotesi migliore stai riuscendo a sviluppare a
portare qualche passetto più avanti o più di lato insomma ad attuare uno
spostamento in quel concetto. E il valore e la portata politica del tuo
lavoro è anche racchiuso in questa capacità di collegarsi ad un
pensiero collettivo.
LR- Quello che hai detto è giustissimo.
Infine non credo si possano definire a priori contenuti validi,
contenuti che si debba “donare” piuttosto che altri. Fondamentale è per
me l’esperienza del dislocamento, della messa in discussione di identità
che il dono di un contenuto, quindi l’opera genera.