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L'11 settembre 2001 segna un giro di boa per l'arte contemporanea, intesa anche come la capacità di gestire ogni ambito e anche l'arte del passato. L'attacco alle Torri Gemelle ha tragicamente esorbitato le propaggini "pop" sviluppate da molti artisti negli anni 90. Questi artisti dopo la disgregazione dei due blocchi della guerra fredda, esprimevano tante individualità, esattamente come avveniva in campo politico, dove ogni nazione, fuori dalle logiche della guerra fredda, voleva affermare la propria identità. Gli artisti degli anni 90 (che io chiamo pop corn) remixavano in modalità originali, i loro nonni e genitori, come Duchamp, Beuys, Warhol, facendo grande attenzione ad un nuovo rapporto con il pubblico, attraverso l'uso di codici pop (popolari) come: colori, gigantismo, glamour, provocazione, interazione. Negli anni 90 provocò molto scandalo la mostra Sensation. Quella mostra sembra, allo stesso tempo, morire ed esorbitare nell'attentato dell'11 settembre. Non dobbiamo dimenticare l'aspetto performativo che rappresenta un attentato; ma anche il principio dell'artista come colui che si deve attivare per plasmare politica e società (Beuys); le migliaia di persone che hanno ripreso l'attentato, diventando in qualche modo -tristi- protagonisti ( i 15 minuti di celebrità di Warhol, ma anche il vuoto e la morte dentro le minestre liofilizzate Campbell e oltre la superficie-immagine colorata di Marylin Monroe).

L'11/9 segna l'inizio di una crisi della rappresentazione. Non solo perchè le provocazioni anni 90 sembrano deboli grimaldelli, ma anche perchè ognuno può ricevere ma anche inviare informazioni di immagini e testo. Allo stesso modo, per la prima volta, l'evento 11 settembre è stato ripreso da più punti di vista e poi comunicato; e poi ancora, questa stessa comunicazione, è stata rielaborata, contorcendosi anche in prevedibili tesi del complotto. Ma questo non importa, quello che sembra significativo è che l'11/9 apre all'era dello smartphone e ad una rappresentazione sovraprodotta e congestionata. Ed ecco che nell'arte cresce e si rafforza il ruolo del curatore come colui che deve selezionare e difendere i contenuti in una mare di proposte similari. Oggi più di ieri la selezione del curatore o dell'istituzione sembra dire cosa sia credibile e valoroso. Le opere degenerano sempre di più in un materiale fatto di luogi e pubbliche relazioni.

L'11 settembre apre da una sovraproduzione indiscriminata di contenuti, che a differenza del passato, possono essere "condivisi". E quindi moltiplicati a loro volta. Una crisi della rappresentazione, dove anche i soliti codici pop (provocazione, colore, gigantismo, interazione) rischiano di essere spuntati. In che modo gestire questa sovraproduzione? Come ordinarla? Come non subire questa sovraproduzione? E soprattutto cosa significa subire questa sovraproduzione? Bisogna ordinarla o va assecondata? 

Nel 900 "subire" ha significato non fare la rivoluzione, non cambiare una situazione considerata insoddisfacente. Pensare ad una rivoluzione o a un cambiamento implica DUE presunzioni:

- penso che la situazione attuale sia migliorabile
- penso di poter cambiare questa situazione

Per tanto prima di pensare alla rivoluzione, è necessario un momento di consapevolezza. Penso che oggi il valore di un'opera d'arte non sia l'innovazione e la novità, ma una consapevolezza critica tra opera, intenzioni e contesto. Tale valore non sta nell'opera d'arte ma in una nuvola MAV (modo, atteggiamento, visione delle cose). Dovremo dire MAVC, ma suona male. Da questa nuvola precipitano le opere, che messe in relazione ci portano a definire, per il singolo artista, un certo modo-atteggiamento-visione. L'arte è una palestra-laboratorio dove sperimentare e allenare questi modi-atteggiamenti-visioni che hanno un valore nella misura in cui hanno un valore nella nostra vita di ogni giorno. Diversamente l'arte diventa un esercizio sterile per cinici e disperati. 


Nella nostra vita di ogni giorno penso sia necessaria la capacità di "vedere veramente". Qualche anno fa è uscito un libro di Saramago, dove la popolazione prendeva un virus che non gli permetteva più di vedere. Il titolo era appunto "cecità". Ho dovuto interrompere il libro poco oltre la metà, perchè era fastidiosissimo leggere il risultato di quel "non vedere". E se anche le persone che credono di vedere non stessero vedendo? Intendo dire, se vivessimo in un mondo che in realtà "non vediamo"? Cosa succede se lavoriamo in una stanza buia? Tanti danni. 

Quando diciamo di non capire un'opera d'arte, diamo per scontato di capire tutto il resto. Ne siamo sicuri? O l'opera d'arte agisce come una spia luminosa, che ci avvisa che forse non stiamo capendo tutto il resto? Che forse non stiamo vedendo tutto il resto? C'è la pretesa stupida e romantica che l'arte debba essere diretta, immediata e democratica, quando questo non avviene per nessun ambito umano. Se entriamo in un Tribunale, in una Sala Operatoria o alla Borsa di Milano, possiamo dire di capire tutto? Non credo. E cosa succederebbe se il paziente dovesse capire immediatamente tutte le cose e le pratiche di una Sala Operatoria? Il paziente morirebbe. 
Anche nell'arte servono strumenti, nozioni e conoscenza della storia. L'arte è come una palestra e un laboratorio, dove allenare e sperimentare modi e atteggiamenti che possono avere un valore nella nostra quotidianità.

Questo aspetto didattico non interessa e fa inorridire molti puristi. In fondo un pubblico vero rimane distante e abbandonato, quindi disinteressato e inconsapevole sulle potenzialità dell'arte. Gli addetti ai lavori per incapacità o paura preferiscono non approfondire: meglio uno spettatore in meno che uno spettatore con senso critico che può creare problemi di giudizio. Se questa è la linea dei musei italiani possiamo capire perchè sta andando male. 



































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