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----> Le riflessioni sul sistema dell'arte in Italia, riguardo al Forum dell'Arte Contemporanea che si terrà a Prato dal 25 al 27 settembre 2015



Bisogna tornare a riconoscere un valore condiviso nell'opera d'arte, diversamente possiamo fare a meno dell'arte. Un valore che non sia solo una formula retorica e buonista per riempirsi la bocca con arte e cultura. Diversamente ci sono cose più belle da fare. Per alcuni parlare di valore è anacronistico, sicuramente è impossibile definirlo in modo oggettivo, fortunatamente. Infatti, se ci pensiamo, le cose più importanti e più piacevoli della vita hanno una valore indefinito, che cambia, che finisce o che ogni giorno rinasce. L'apparente inutilità dell'arte, l'impossibilità di quantificare, come facciamo per uno smartphone o per un suv, è già di per sé un "valore". Se guardiamo il mondo, forse bisogna iniziare a diventare anacronistici. Quindi parliamo di valore, impegnamoci nella missione impossibile di quantificare il valore; il valore comparirà in modo sorprendente. Da sei anni cerco di stimolare in questo senso il sistema dell'arte. Purtroppo i professionisti dell'arte hanno paura di questa "missione impossibile", non sono disposti a mettere in discussione i dispositivi retorici che legittimano la propria posizione e il proprio stipendio. Senza capire che invece sarebbe il contrario, ovviamente dovendo lasciare sul campo molte certezze, molti mostri sacri e giovani promesse. Scrivere queste righe è fin troppo facile, più difficile passare dalla parole ai fatti. Ossia, "come fare?". Nel 2014, dopo un certo percorso, insieme ad Enrico Morsiani, ho ideato una serie di opere che abbiamo chiamato "pret a porter", il progetto MyDuchamp. Ogni opera è come se un bambino venisse lasciato a casa da solo, e iniziasse a giocare con l'arte moderna, pescando dalla cassetta degli attrezzi del papà. Queste opere sono come "cavalli di Troia" per innescare un dialogo. Niente di particolarmente innovativo. Non l'ennesimo contenuto che pretende di essere innovativo, quanto uno spazio di opportunità per argomentare il valore dell'opera, e tentare di fare la differenza fra i contenuti. Uno spazio di opportunità che oggi servirebbe ad un pubblico abbandonato e ad artisti debolissimi e costretti ad essere operai delle pubbliche relazioni e burocrati della creatività. La crisi del postmoderno è proprio questa: un bombardamento di contenuti che soffoca ogni contenuto e ogni senso critico. Come se ci imboccassero in continuazione con paste e bignè, non avremo il tempo per esprimere un parere o distinguere i sapori. Quindi qual è il problema del postmoderno? Che nonostante l'assenza di senso critico, quello soffocato, facciamo scelte di valore in continuazione. Dalle scarpe da mettere, passando per il nostro partner, fino alla nostra vita lavorativa. Ossia facciamo scelte da ciechi ma non sappiamo di essere ciechi. Un potenziale disastro. Ovviamente sto generalizzando; in questo delirio alla Saramago, qualcuno intuisce qualcosa, qualcosa si salva. La prima risorsa per intuire qualcosa è sicuramente il "tempo". Ossia tutti cercano denaro, senza rendersi conto che la vera risorsa scarsa di cui disponiamo è il tempo a nostra disposizione. Capire questo e agire di conseguenza, sono già altri valori. Allo stesso tempo se fermiamo uno per strada e gli diciamo che da domani lui avrà tempo, questo andrà nel panico; un po' come i pensionati, figli della seconda guerra mondiale, che in pensione non hanno le papille gustative per godere del proprio tempo, proprio perché sono stati abituati ai dictat essenziali: casa, lavoro, partner. Ed ecco che i lavori in corso diventano interessanti. Ecco, davanti alle opere di MyDuchamp vorremo parlare anche di queste cose. Ma perché parlo di "pret a porter"? Perché in realtà le opere di MyDuchamp sono dei "pasticci consapevoli", e per questo non sono pasticci. Sono l'altra faccia della medaglia, sono quello che fanno tutti senza rendersene conto. Sono opere consapevolmente postmoderne e per questo superano il postmoderno. Nel senso che da una parte fanno una parodia del moderno, ne prendono le distanze, ma dall'altra parte sono anche un "the best of" del moderno stesso. Sono un po' quello che Nicolas Bourriaud definisce come "altermoderno": 

"Invece che subirla o resistervi per inerzia, il capitalismo globale sembra aver fatto propri i flussi, la velocità, il nomadismo? Allora dobbiamo essere ancora più mobili. Non farci costringere, obbligare, e forzare a salutare la stagnazione come un ideale. L'immaginario mondiale è dominato dalla flessibilità? Inventiamo per essa nuovi significati, inoculiamo la lunga durata e l'estrema lentezza al cuore della velocità piuttosto che opporle posture rigide e nostalgiche. La forza di questo stile di pensiero emergente risiede in protocolli di messa in cammino: si tratta di elaborare un pensiero nomade che si organizzi in termini di circuiti e sperimentazioni, e non di installazione permanente, perennizzazione, costruito. Alla precarizzazione dell'esperienza opponiamo un pensiero risolutamente precario che si inserisca e si inoculi nelle stesse reti che ci soffocano."


Lo sono un po', perché la manifestazione più radicale di questo "altermoderno" è nell'altra faccia della medaglia, non nel "pret a porter" ma nell'alta moda, per continuare la metafora con il mondo della moda. Davanti a Expo e Biennali come grandi, e spesso noiosi, luna park per adulti, mi sembra che dovremo sottrarre l'idea di intrattenimento dal campo dell'arte. Ossia: "ti intrattengo per poco, e spero bene, così avrai più tempo (appunto) per fare altre cose". Partendo da queste riflessioni, prima in modo intuitivo e poi in modo più consapevole, questo blog ha presentato più di venti progetti in questo senso. Gli ultimi due in ordine di tempo sono quello alla Serpentine Gallery di Londra e alla Boros Collection di Berlino; ma mi piace ricordare anche "zero project", dopo il quale sul sito della galleria zero di milano potevate trovare solo i curriculum vitae degli artisti; "I'm not Roberta" al Whitney nel 2010, le pizze che gli utenti potevano mandare alla Galleria De Carlo; lo spazio vuoto che c'è ancora al Mart di Rovereto; "gagosian project", i quadri di luce a Varsavia nel 2011; la mostra che ognuno poteva organizzare in casa sua stampando e attaccando semplicemente questi progetti al muro, fino ad arrivare alla famosa teca presso l'Abbazia di Sénanque; e poi la Biennale di Venezia del 2013. Ognuno di questi progetti ha contribuito a mettere tutto in discussione, e quindi a rivitalizzare tutto. Mi sembra che questi progetti facciano seguito, ad anteriori e posteriori, alle parole di Bourriaud. Naturalmente vengono, tendenzialmente, ignorati proprio perché mettemmo in discussione alcune definizioni stanche di artista, museo, biennale e curatore.